stagione teatrale 2013 .
2014
Zocotoco srl
presenta
Luca Zingaretti
Massimo de Francovich
LA TORRE D’ AVORIO
di Ronald Harwood
traduzione di Masolino d’ Amico
con
Paolo Briguglia
Gianluigi Fogacci, Francesca Ciocchetti, Caterina Gramaglia
Scene Andrè Benaim Costumi Chiara Ferrantini Luci Pasquale Mari
Regia Luca Zingaretti
Berlino 1946. E’ il momento di regolare i conti, e la cosiddetta
denazificazione – la caccia ai sostenitori del caduto regime - è
in pieno svolgimento. Gli alleati hanno bisogno di prede illustri, di
casi esemplari che diano risonanza all’iniziativa. Viene così convocato,
nel quadro di una indagine sulla sua presunta collaborazione con la
dittatura, il più illustre esponente dell’alta cultura tedesca, vale
a dire il direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, universalmente
acclamato accanto a Toscanini come il maggiore della prima metà del
secolo. Furtwängler non era stato nazista, e anzi non aveva nascosto
di detestare le politiche del Terzo Reich; era anche riuscito a non
prendere mai la tessera del partito. Ma nel buio periodo dell’esodo
di molti illustri intellettuali che avevano preferito trasferirsi all’estero
piuttosto che continuare a lavorare in condizioni opprimenti, era rimasto
in patria, e aveva svolto la sua attività in condizioni privilegiate.
Aveva scelto, in tempi durissimi, di tenere accesa la fiaccola dell’arte
e della cultura, convinto che questa non abbia connotazione politica;
e aveva sfruttato il suo prestigio per aiutare, all’occorrenza, persone
perseguitate o emarginate. Si era anche scaricato la coscienza barcamenandosi
per esibirsi nel minor numero possibile di occasioni ufficiali; pur
di non stringere la mano a Hitler, in una occasione famosa e fotografata,
aveva fatto in modo di continuare a impugnare la bacchetta con la destra.
Dai suoi compatrioti, quasi tutti melomani, era sempre stato venerato
alla stregua di una divinità super partes, e anche dopo la fine della
guerra nessun tedesco si era sentito di addebitargli alcunché.
Ma ecco ora che i vincitori vogliono vederci chiaro, e se possibile
far crollare anche questo superstite mito della superiorità germanica.
Consapevoli del fascino che il grande artista esercita su tante persone,
essi affidano l’indagine a un uomo che dà ogni garanzia di esserne
immune: un maggiore dell’esercito che
detesta la musica classica, venditore di polizze assicurative nella
vita civile e quindi molto sospettoso nei confronti del prossimo; un
plebeo che disprezza le sdolcinatezze borghesi; un giustiziere sacrosantamente
indignato dalle ingiustizie e dalle atrocità che ha visto perpetrare
in questa corrottissima zona dell’Europa; soprattutto, un americano
convinto nell’eguaglianza di tutti gli uomini sia nei diritti sia
nelle responsabilità.
Ronald Harwood – l’autore del da noi sempre riproposto “Servo
di Scena”, ma poi anche di numerosi altri testi teatrali, letterari
e cinematografici (uno dei quali, la sceneggiatura del “Pianista”
di Roman Polanski, premiato con l’Oscar) – è contemporaneamente
ebreo, appassionato di musica (ha scritto una commedia su Mahler, un
romanzo su César Franck) e sudafricano: in grado quindi sia di guardare
il contegno di Furtwängler con gli occhi critici di una delle vittime,
sia la tracotanza del filisteo maggiore Arnold con quelli di qualcuno
per cui l’arte sia un bene supremo e irrinunciabile, sia l’atteggiamento
dei vincitori dalla prospettiva di uno di loro ma che non è coinvolto
come loro. Lo scontro tra due avversari così diversi e così poco disposti
a capirsi – soprattutto, ciascuno dei quali è convinto delle proprie
ragioni - offre teatralmente quello che nella boxe è considerato il
match ideale, tra il picchiatore e lo schermidore; tra coloro che assistono,
variamente coinvolti, paio offrono testimonianze ambigue, che potrebbero
andare sia a carico sia a discarico dell’imputato. Del resto l’episodio
è storico, all’epoca Furtwängler fu veramente indagato e in qualche
misura umiliato, e se le accuse poi caddero la sua immagine pubblica
non recuperò più del tutto la limpidezza di una volta. Il suo caso
suscita interrogativi che nessuna formula sembra aver risolto ancora
oggi, e assai modernamente l’autore non propone risposte, ma sollecita
ogni spettatore a dare la sua. Con un regime infame non si deve collaborare,
questo è ovvio. Ma svolgere un’attività artistica equivale a collaborare?
Per qualcuno, sì: si contribuisce a dare un’immagine positiva di
un Paese che invece è marcio. Per qualcun altro, no: se mostri l’arte,
la bellezza, ai tuoi concittadini per quanto oppressi, aiuti a tener
vivo in loro qualcosa che un giorno potrebbe aiutarli a riprendersi.
In molti casi la questione può essere risolta dalla coscienza individuale:
se non voglio i soldi, mettiamo, di quel tale editore le cui posizioni
politiche non condivido, posso pubblicare con qualcun altro. Ma quando
si tratta di un personaggio così rappresentativo, che le sue scelte
costituiscono un esempio per tutti?
La commedia debuttò a Londra nel 1995 per la regia di Harold
Pinter, e fu ripresa a New York e in molte altre città. Il titolo originale,
“Taking sides”, significa letteralmente “Schierarsi”: non un
gran che in italiano, meglio comunque di quello appioppato al film di
Istvan Szabò del 2001 (con Harvey Keitel e Stellan Skarsgård), “A
torto o a ragione”). Proponendo di renderlo come “La torre d’avorio”
si è voluto alludere alla condizione di orgoglioso isolamento che l’artista
crede, forse a torto, di potersi permettere sempre.
Masolino D'Amico
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